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Scienza

I farmaci che non piacciono allo scienziato

(pubblicato su Il Giornale, 12 dicembre 2003)

Il ministro Sirchia si rifiuta di riconoscere alcune medicine alternative. Il rifiuto è lodevole: egli opera nell’interesse della collettività. Da quando la parola “alternativo” è diventata logora e abusata, quelle medicine si chiamano “non convenzionali”. Nella sostanza non cambia nulla: esse sono quelle che non funzionano.

Prendiamo l’omeopatia, ad esempio. Nel 1996 si celebrò, a Francoforte, il bicentenario della pubblicazione del medico tedesco Samuel Hahnemann ove egli stabiliva le leggi fondamentali dell’omeopatia, quella secondo cui “il simile cura il simile”, e la legge degli infinitesimali: meno si dà meglio è. In quell’occasione, il ministro della sanità tedesco solennemente dichiarò che “il successo dell’omeopatia non può essere negato”. E aveva ragione: l’omeopatia è un successo multimiliardario. Che essa funzioni è impossibile.

La ragione è molto semplice: i “farmaci” omeopatici sono preparati mediante diluizioni successive di una soluzione madre. Tipicamente, si hanno diluizioni che sono qualificate come CH30, CH100, o anche CH200. Ma già la diluizione CH20 preparata a partire da una soluzione madre di, ad esempio, mezzo grammo di zucchero in un litro d’acqua, equivale ad avere una sola molecola di zucchero in tanta acqua quanta ne contiene il mar Mediterraneo. Un flaconcino di questa soluzione non conterrà quindi neanche una molecola di principio attivo. La più tipica diluizione CH200 significa avere una molecola in una quantità d’acqua pari all’intero universo fosse esso composto di sola acqua!

Ciò fa capire perché Hahnemann ebbe successo: 2 secoli fa la medicina non era fondata su basi scientifiche, e i pazienti venivano trattati per lo più con purghe, salassi e intrugli che, spesso, oltre che inutili, erano anche dannosi; per cui i preparati di Hahnemann, pur se totalmente inefficaci, erano almeno innocui. Ed ebbero successo.

A difesa di Hahnemann, va detto che, date le conoscenze scientifiche del tempo, egli in nessun modo poteva sapere che le diluizioni successive che effettuava lo portavano ad ottenere acqua pura. Oggi, che la natura molecolare della materia è assodata e nozioni come il “numero di Avogadro” si apprendono a scuola, l’omeopatia è disciplina estranea alla scienza. Non meno di quanto lo sia l’astrologia.

Chi si cura con un farmaco omeopatico deve allora essere consapevole che nessuno potrà distinguere un flacone di quel costoso farmaco da uno d’acqua fresca: sarebbe come pretendere di distinguere un calice d’acqua benedetta prima e dopo la benedizione.

Ci si può chiedere: com’è possibile che molti rimedi alternativi abbiano così tanto seguito? Innanzitutto, il processo evolutivo ci ha dotato di un complesso sistema di difese naturali che ci consente di guarire spesso spontaneamente da molte malattie. Per cui, se qualcuno ci persuade che il suo unguento alternativo cura la malattia, e poi guariamo, spesso rischiamo di cadere nella trappola logica del “post hoc, ergo propter hoc”. Ma non è tutto.

La scienza comincia a comprendere quella complessa interazione tra il cervello e il sistema endocrino che è stata chiamata effetto “placebo”. Il cui meccanismo consiste nell’ingannare il cervello facendogli credere che effettivamente ci si sta prendendo cura della malattia. Un inganno che, senza certamente far ridurre, che so, un tumore, può però influenzare la “percezione” della pena. Insomma, ciascuno di noi ha bisogno di convincersi che qualcuno si sta prendendo cura del nostro problema. O, più semplicemente, ha bisogno di coccole. L’effetto placebo sarà quindi tanto più marcato quanto più lo stesso dottore è convinto che la sua cura alternativa funziona.

La cosiddetta medicina alternativa, allora, non è una branca della medicina scientificamente fondata. La prima rimane inalterata nel tempo, anche per secoli, inattaccabile dai progressi della conoscenza, proprio perché rifiuta i controlli cui invece si sottopone la seconda. L’appellativo “alternativa” si riferisce allora, piuttosto, ad un atteggiamento culturale: quello di chi non pretende supporto scientifico, dà maggior peso alle tradizioni e ai rimedi della nonna che alla biologia, e preferisce l’aneddotica alla sperimentazione clinica controllata.

Per fortuna, gran parte delle terapie “alternative” sono in sé innocue (se si esclude il danno al portafogli). E il maggiore danno che possono procurare è distogliere chi è veramente malato da cure possibili. Esse sono un po’ come fornire una mappa di Londra a uno che deve orientarsi a Parigi: una manovra innocua in sé, ma che può risultare fatale a chi si è veramente perduto.